Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

domenica 30 ottobre 2011

Scrivo

Prossimo post martedì 1 novembre








Scrivo. Vomito fuori. A volte con ironia, piacere. A volte con strazio, con il dolore di un’amputazione.
Non perché sia triste né per cercare commiserazione. Troppo fiero per questo. E troppo credente. Che la tristezza è la migliore alleata del nemico. E non voglio arrendermi.
Ma duole dentro, poco o troppo, brucia, e bisogna espellere. Come sterco che una volta fuori non è più tuo, non c’è neanche più. E si cristallizza.
A volte fa male, prima, e poi quel senso di sollievo di chi ha preso le distanze, di chi ha capito e curato. Perché verbalizzare dissolve, come se pigiando i tasti che trasferiscono su un foglio virtuale quel peso che comprime il petto, tutto s’acchiarasse, spazzato via il dolore, l’anima stirata, accesa la luce.
E sì, la forza della parola per me sta in questo che mentre scrivo che non sento più la forza di lottare, di insistere, di provare ancora una volta; mentre le dita scorrono lente e talvolta accelerano per tener dietro al pensiero mentre spiegano alla pagina che la volontà si estingue, s’annacqua il coraggio, ecco, mentre questo cancro prende vita sul biancore che lo schermo mi riluce, è già svanito dal cuore e la voglia di ringhiare e combattere è già qui ancora.
Lo sguardo torna secco, duro, vivo.
Per questo scrivo, perché le pene se le asciuga la carta –finta si intende, eppure reale- e non resta poi nessuna rivendicazione, nessun rimpianto, nessun rimorso, nessuna vendetta. Solo un cielo terso, allegro, una risata che sconfigge questo fischio sordo e senza fine che ormai le orecchie mi rimandano di continuo, proprio quando tutto intorno tace.
E se scrivo di noi non è per ripicca, per lamentela, ma per gioia, per amore, per raccontare quanto sono fortunato, quanto ho meritato, indegno io.
Scrivo perché qui incontro l’amico più grande che ho, che non sono neppure io, ma quell’angelo che mi sa ascoltare senza mai smettere di cullarmi.





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giovedì 27 ottobre 2011

Orfano


Prossimo post domenica 30 ottobre


il senso di tutto

E poi scopri che quell’essere orfano ti pesa più di quando pensassi.
No, non è solo per risentire le loro voci, che qualche volta ti sembra ancora che ti chiamino dal balcone, e tu guardi su, alzi la testa verso una assenza che si nasconde nella tua miopia.

No, non è neanche quando ti serve aiuto, perché anche un cinquant’enne può avere bisogno di aiuto, di un consiglio, di una commissione. Che sarebbe comunque una mancanza per te, non per loro. Egoismo. In un certo qual senso.

Ti mancano certamente quando il calendario te lo ricorda, poco fa tua madre avrebbe compiuto 78 anni e sono già 3 che manca, e papà l’hai perso prima dell’11 settembre, quando il millennio era ancora acerbo e nulla faceva presagire questo scempio della vita.

Non è neppure quando passi per quei brandelli di città che ti rimbalzano addosso ricordi, sempre esasperati nella dolcezza e nel dolore, come dentro ad un tubo che da nel tempo, come cantava Vecchioni.

E’ quando ti assale quella debolezza che avevi quando eri bambino, piccolo, che qualche cosa ti spaventava, ti negava il futuro, ti accecava la speranza. E allora correvi quasi, urlavi o piangevi, e ti buttavi tra le loro braccia, perché li volevi tutti e due, non solo uno di loro, tutti e due, nel lettone, stretti intorno a te a proteggerti, a rassicurarti, a negare il presente per accendere il futuro.
Ecco.
E oggi non puoi più, perché non puoi essere debole, non puoi. Sei tu quello che deve abbracciare, rassicurare, comprendere, sostenere.

E allora essere orfano scopri che pesa.

Perché solo con loro potresti essere ancora bambino.


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