Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

martedì 14 febbraio 2012

L'amico del cinema






Ascolto per radio Voi siete qui, ne ho già raccontato, quella bella trasmissione di Radio24 condotta da Matteo Caccia.
Il tema del giorno è la rabbia, non tra i più divertenti. Ma all’improvviso il conduttore butta lì una frase, che mi cambia la giornata.
Dice: gli amici veri sono quelli che testi al cinema, se ami gli stessi film e ci vai volentieri.
Quadro: scompare la collina veronese sulla quale si slancia la A4 e mi trovo davanti al cinema Aurora di via Paolo Sarpi prima metà degli anni 70, quando l’Aurora era cinema di seconda visione e non brillavano luci rosse alle porte, e Paolosarpi (tutto attaccato) era un salotto buono e non la Chinatown odierna.
Sono lì nonostante quel giorno avessi deciso di studiare, per preparare un compito in classe. Erano gli anni del ginnasio e delle declinazioni di grecoelatino (anche questo tutto attaccato).
 Sono lì perché un amico carissimo, anzi l’amico, quello che ammiri e che invidi, in quel modo sano e che rafforza, mi aveva telefonato dicendo poche parole “ho piantato la Paola, andiamo al cinema tu ed io”. Neanche una domanda, forse, un ordine.
E un amico obbedisce. Anche se alla Paola ci morivo dietro anche io, e non mi filava neanche di striscio come si dice. Anche se al cinema ci sarei andato più volentieri con la Paola che potevo telefonarle e dirle: so che quel pirla ti ha piantato, ci sono io.
E così abbiamo visto Rollerball, quello originale, con James Caan. E Albinoni.
E prima di Natale (2011 ovvio) con il medesimo amico abbiamo pranzato insieme. Che il cinema va bene finché sei sbarbino, poi la prova del nove è la trattoria.

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