Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

giovedì 19 aprile 2012

I racconti del giovedì: Gabriele

I racconti del giovedì Gabriele

prossimo post sabato 21 aprile




«Già, Gabriele. Non lo ricordavo più. Nome nobile. E' l'angelo che ha portato l'annuncio a Maria. Uno dei tre arcangeli insieme a Raffaele e Michele. La madre di quell'uomo commise un errore mostruoso: o forse fu lui ad essere schiacciato dal peso di quel nome. Nomen sit omen: il tuo nome ti sia di buon auspicio. Fu una sciagura, invece. Tutto in quella persona faceva pensare alla bassezza: la meschinità emanava da lui come una deformazione del corpo che nessun abito sia mai in grado di nascondere. Era forse la luce degli occhi o il modo in cui si torceva di continuo le mani o quel sibilo, dovuto ad una forma particolare di asma contratta in gioventù nei terreni paludosi e malarici dove era nato. Viveva nella perenne convinzione di essere l'olocausto dell'umanità: una sorta di vittima predestinata da un dio cinico e sarcastico che l'avesse eletto come capro espiatorio. E lui non negava a nessuno il suo disprezzo. Era impiegato postale nel paese di montagna, nel cuore dell'Abruzzo, dove andai a vivere per un certo periodo. Vi trovai impiego mentre decidevo che cosa fare della mia vita. Commesso da un pizzicagnolo. Per sopravvivere. Gabriele veniva a comperare formaggio e salame. Scivolava dentro il negozio, uno stanzone buio e polveroso, quando le ombre si facevano più dense. Sentivo il suo sibilo rauco prima ancora di vedere la sua faccia. "Firmino", mi diceva, "Firmino, il solito". E aggiungeva subito: "anche oggi scalogna nera. Lo sai quanti pacchi si spediscono in questi paese di balordi? Più che le capre! Sembra che ogni bestia abbia parenti ovunque nel mondo... E che gli manderanno mai? Pacchi pesanti, come peccati. E tocca a me portarli tutti: dallo sportello al cestone, dal cestone alla porta, dalla porta al furgoncino. Io non c'ho più l'età, Firmino. Lo vedi come sono? Secco. E loro ridono di me. I pacchi li spediscono solo per farmi faticare. Lo so, lo so. Non scuotere la testa. Li vedo in faccia io, quando vengono lì con quei loro macigni. Hanno facce rosse, gonfie, sporche. Hai mai visto come sono sporchi? Tutti! Anche il farmacista, che fa tanto il signore. Ma è sporco pure lui. E non mi saluta quando passo davanti alla sua bottega e lui è lì, sulla porta a fumare. E che? Non si può vivere senza medicine? Io, le sue medicine, non gliele compro mai! Mai, hai capito Firmino? Io con le erbe mi curo. Eppoi non mi curo mai perché sono sempre malato e non c'è più nulla che mi possa aiutare. La posta invece: come si può vivere senza quella? Come li manderebbero quei loro pacchi senza la posta? Maledetti loro e i loro pacchi! Firmino, me l'hai dato saporito il formaggio? Eh, Firmino. Se non ci fossi tu in questo paese... ti dovevano inventare. Benedetto il giorno che sei arrivato. A proposito Firmino, da dove vieni? Me l'hai già detto, ma non ricordo. Non ho mai spedito pacchi per te! Grazie Firmino. Li odio i pacchi, io". Io tacevo. Era l'unica difesa. Ma anche il silenzio può essere giudicato, se proprio vuoi. Poi si trascinava fuori dal negozio, si fermava sulla soglia e con quegli occhietti piccoli e luccicanti -sì, luccicanti, come la pelle di una anguilla- radiografava la piazza. Un disgraziato, ti dico. Aveva accompagnato la moglie al cimitero: era  bianco come una busta. Lui ce l'aveva mandata! Almeno così dicevano. Non che la picchiasse: anche se per la verità non posso escluderlo. Fu il suo veleno: l'astio che colava da ogni suo gesto. Un anima di quelle che tengono la lista dei danni. Il rancore, che non aveva il coraggio di sfogare, gli si moltiplicava dentro come un virus. E poi traboccava.  Era arguto: non c'era frase che non contenesse un retrogusto marcio. Se diceva "buonasera", lo accompagnava con un tono sordo e minaccioso, e con un gesto della testa di sbieco, come se stesse attorcigliandosi su se stesso per attaccarti, alla moda di un serpente a sonagli, e pareva ti dicesse: "che sia la tua ultima sera". La moglie era pian piano svanita, si era fatta trasparente: consumata, come una candela. Finché non era rimasto più nulla e si era spenta, bianca sul grigiore diffuso delle lenzuola. "M'ha fatto torto", urlava Gabriele, "m'ha fatto torto anche morendo. Mi ha lasciato solo: e come faccio adesso con la casa e una figlia da maritare?". La figlia si era maritata da sola e in gran fretta, appena dopo la morte della madre. Era scappata via, ti dico. Credimi: so come si può fuggire. Forse aveva fatto sciocchezze prima del matrimonio per liberarsi da quel padre: aveva il terrore che uccidesse anche lei. "Svergognata! Il primo foresto che le è capitato a tiro!", commentava Gabriele, "che razza di uomo può essere quello? Un rappresentante di commercio: di biancheria femminile. Mascalzone! Come gli fatto gli occhi dolci lei qui, chissà quante donne... Peggio di un marinaio. Questo Cristina proprio non doveva farmelo. Mi ha rovinato. In paese lo dicono tutti: una ragazza inutile, leggera. E quello? La farà soffrire. Ah, ma io sono un buon padre, io. Mi trasferirò da loro, quando la finirò di spedire pacchi. E allora aggiusterò tutto io. So di avere le mie responsabilità. E metterò tutto apposto". Doveva aver comunicato queste sue intenzioni alla figlia, perché né lei né il marito si fecero più vedere in paese e dicono che cambiarono anche casa senza più scrivere al padre, per il timore di vederselo piombare addosso all'improvviso. Io ero ancora giovane, allora. Lo stavo a sentire. Un anima torva così non l'ho più incontrata. Però mi è rimasto il dubbio che la colpa non fosse tutta sua. Chissà, un torto patito in gioventù: forse l'asma vissuta come un castigo immeritato. Se qualcuno fosse stato a sentirlo fin d'allora... Certe volte mi pareva di vedere un alito diverso: come uno spirito prigioniero che cercasse di forzare la serratura e venire fuori. In controluce mi pareva di scorgere sul suo volto agitarsi un altro uomo che premeva e piangeva per liberarsi. Sembrava che i lineamenti stessi si distendessero per assumere toni più sfumati, più lievi. Un secondo. Forse anche meno. Poi ritornava quell'espressione fratturata e cattiva. Non so che fine abbia fatto. Dopo qualche anno me ne andai da quel paese. Mi era venuto a noia quel sole stanco che rovesciava pigrizia».

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