Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

martedì 13 maggio 2014

La lezione del cammino (decima tappa): che senso dare al tempo




Già perché c’è anche il tempo sul quale è necessario imparare. E tempo per noi vuol dire tre cose. Chiaro che ne vuol dire molte di più, ma tutte stanno dentro tre scatole:

-       il clima;
-       l’occasione;
-       l’urgenza

Siamo tutti così preoccupati del meteo, vogliamo sempre il sole nelle nostra vita, ma non troppo caldo. Il giusto. Il giusto per me. Quello che piace a me. Abbiamo trasferito anche nel clima la pretesa che tutto sia a nostra misura, a nostro piacere.

E non appena non siamo accontentati, scatta il piano B: la lamentela cronica e organizzata. E il rifiuto di perseguire l’obiettivo originale.
Il cammino se ne frega: ti rotola davanti il clima che gli pare, o se vogliamo essere ottimisti, quello che serve e te per capire e crescere. Nei nostri sette giorni sul cammino, i primi sette giorni spero, abbiamo trovato di tutto ma soprattutto acqua. E ventosa, buferosa, di traverso, addosso, contro. Dentro. Ma non ti fermi. Ti alzi al mattino e vai avanti.
A casa imprechi, in vacanza ti lamenti. È nuvolo? Cambi programma: lo diceva bene mia moglie. Invece della gita programmata torni a letto.
Sul Cammino non puoi. Piove? Chissenefrega! Metto su la cerata,  proteggo lo zaino e parto.
Perché la vita va affrontata così, con coraggio –ti spiega il Cammino- con le sue difficoltà che hai la forza per vincere, per sfidarle. Che poi ti capita che quando arrivi splende il sole.

L’occasione va colta. Tornato a casa con la voglia di farlo tutto questo cammino, di fila, faccio due conti con l’età e le occupazioni: considerato che non posso andare in pensione prima dei settant’anni –e sono ottimista- come faccio a rimandare a quel momento le attività che mi piacerebbe fare –correre una maratona, partire da SJPDP….- dato che allora non so che fisico mi sorreggerà?


Se devo fare l’impresa devo trovare spazio da qui ai prossimi 6 massimo 10 anni.
E parte il rimpianto per non averlo fatto prima. Come chi continua a dirsi: lo devo fare sto cammino. L’anno prossimo. E volarono anni corti come giorni.
Non aspettare a fare quello che vuoi e devi, dice il Cammino, smetti di rimandare, di cercare l’occasione giusta. Lo sai: non arriverà mai. Devi costruirtela, trovartela addosso, nella testa prima che nel calendario. 
Prenditi dei rischi. 
Questo ti urla il cammino: smetti di voler avere il controllo su tutto. 
Fidati. Affidati. 
Prudenza sì, codardia no. Lancia il cuore. Che non vuol dire a tutti i costi fare il Cammino, ma vuol dire fare quello che sogni e che ha senso per la tua vita.

Infinte la velocità del tempo: sul Cammino il tempo scivola, culla, sciaborda come un mare appena mosso sulla tua barca. Non è fiume, è laguna. Ti abbraccia. Non perché stai fermo, perché le tue 6-8 ore al giorno le cammini, sia chiaro, ma perché sei dentro una bolla, protetto non isolato. E senti che ci puoi stare lì, non per tutta la vita, per quella è sopra-vita, uno squarcio dentro il significato che ti viene regalato, proprio anche con una velocità diversa. Ma dalla quale devi imparare: che prima della urgenza viene l’importanza e che l’importanza altro non è se non la riflessione sulle conseguenze. Che cosa succede nel fare o non fare questo? Che cosa perdo? Che cosa guadagno?

Penso ai pellegrini che ci hanno preceduto, quelli senza roba tecnica, wifi, impegni urgenti. Quelli che ci mettevano la vita sul Cammino. E a volte ce la lasciavano trovando ben altra destinazione. E imparo anche da loro.

Prenditi i tempi per camminare e il Cammino saprà regalarti senso in cambio.




Ecco qui tutte le tappe fino ad ora pubblicate
Decima: il tempo

E a seguire

Undicesima: delusioni e aspettative
Dodicesima: la patente dimenticata
Tredicesima: la croce e il cammino
Quattordicesima: di muscoli e fatica
Quindicesima: la messa del pellegrino
Sedicesima: tutto ricomincia


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