Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

mercoledì 30 dicembre 2015

Il caffè del 2015: i finalisti


Siamo alla selezione ristretta.
Scegli il caffè che ti è piaciuto più più e potresti vincere... un caffè con Paolo! 


Numero 34




Numero 50




Numero 68




Numero 98






Numero 115



Numero 125 



Numero 130


Numero 131



Numero 132



Non te ne piace nessuno? Li vuoi rivedere tutti?
Ecco qua dove li trovi

La playlist completa

La serie delle "lezioni americane"


Conto su di te! Vota qua sotto!
Grazie

domenica 27 dicembre 2015

Scegli il caffè che ti è piaciuto di più


Qual è il caffè che ti è piaciuto di più?
Aiutami a scegliere il caffè del 2015 e potresti vincere... un caffè con Paolo! 

Numero 7

Numero 19


Numero 34



Numero 41



Numero 50


Numero 68


Numero 81




Numero 98





Numero 101



Numero 108



Numero 115



Numero 125 




Numero 129

Non te ne piace nessuno? Li vuoi rivedere tutti?
Ecco qua dove li trovi

La playlist completa

La serie delle "lezioni americane"


Conto su di te! Vota qua sotto!
Grazie

lunedì 7 dicembre 2015

Il racconto della domenica: madre



Madre, oh madre. Mi è vietato dimenticarmi di te. Ogni volta che passo davanti all’ospizio dove sei morta, mi assale un brivido che riesce a mescolare senso di colpa e di liberazione, come se queste due dimensioni non potessero essere disgiunte neppure ora che non sei più qui e che ti immagino in una pace senza fine, la pace che hai inseguito sempre, travolgendo tutto e tutti in questa tua ricerca astiosa e irrequieta.
Anche me.
E questa ansia, la tua inquietudine, me l’hai lasciata come un dono, come una eredità scomoda, ma saggia. Di quelle che ti tengono desta l’anima, in un combattimento senza fine. Perché la pace può essere figlia di due opposti: della stupida e dannata pacificazione, come una pianura secca e deserta, sotto un cielo dilavato e piallato, senza vento; oppure di una guerra senza fine, combattuta contro noi stessi, senza tregua e senza prigionieri, senza notti in cui riposare, senza cieli da contemplare, piena di vento, quello freddo, tagliente, che scende da Nord e non si arresta se non alla giuntura tra anima e carne, e forse neppure lì, quella guerra che lascia senza fiato, eppure felici come l’eroe che dà la vita per ciò in cui crede.
Dicono che coloro ai quali viene amputato un arto, chessò una gamba, per anni continuano a sentirlo ancora come se fosse ancora lì, appeso a loro. Ecco, con te io provo la medesima cosa. Sei sempre qui, aggrappata a me come lo eri in vita. Il tuo amore rabbioso e violento mi soffocava: lo caricavi di tutte quelle risposte che non avevi avuto dalla vita, non perché lei non te le avesse date, ma perché non ne eri mai contenta. Eri tesa sì, ma non serena: sostenevi di avere un conto aperto con la vita, e lo facevi pagare a tutti coloro che provavano ad amarti, come se per contrappasso quell’amore dovesse torcersi in vendetta.
E’ strano, anche se la tua morte, da sola –mi hai preso per sfinimento e questo io non me lo so perdonare, di averti lasciato morire da sola, in coma d’accordo, ma senza nessuno che ti tenesse la mano, nemmeno io, e questo mi ripugna, per pietà e per orgoglio: non poter dire che io c’ero, che sana umiliazione, vedi in fin dei conti mi hai amato anche morendo di notte per lasciarmi questa amarezza dolce che sana e sradica i miei vizi- in quella stanza singola che finalmente avevi ottenuto, come ennesimo capriccio, come se stesse lì tutto il bene dell’universo, anche se la tua morte ha sedato il mio risentimento, e spalancato la porta ad un amore che sapevo di avere per te, ma non di questa intensità, non ha sopito i ricordi oscuri, né li ha ammantati di quella dolcezza che sembra l’assenza regali ad ogni memoria. Tutt’altro. Li ha resi più vivi, lucidi, taglienti, anche se li ha privati di quel veleno che, quand’eri in vita, mi annebbiava la vista e mi soffocava il cuore spingendolo giù in un fango d’odio e di dipendenza nel quale mi sembrava di sprofondare come in sabbie mobili maligne.
E così la prima immagine che vedo non è il sorriso con il quale mi accoglievi da bambino, non ancora così tirato e sciapo come da vecchia, né l’abbraccio con il quale mi ringraziavi di esserci. Non è quello sguardo acceso d’amore che luccica ancora in una vecchia foto in bianco e nero. Sei sullo sfondo, di sbieco, chinata, tieni quegli occhi luminosi, come non ho mai più visto, su di me che poco più avanti, ma a fuoco, in primo piano, muovo i primi passi e si vede che traballo, con quella bavaglina di stoffa colorata che ricordo benissimo, per uno di quegli strani giochi della memoria che si divertono a estrarre dalla nebbia particolari che ti dicono quello che non riesci più a ricordare. Stai lì e mi guardi e la gioia sembra colorare questa foto con i bordi bianchi frastagliati; e io non ti vedo, ma so che ci sei, che sei pronta a sorreggermi. Mi fido. C’è tutta la nostra vita lì. Anche papà, lontanissimo, nell’oscurità del corridoio, lui che se ne è andato per primo e che ti ha aspettato con la medesima delicatezza celata con la quale ti lasciava in primo piano, in piena luce, per scegliere sempre le tinte pastello, gli spigoli dei minuti, le macchie d’ombra. Sono sempre convinto che ti avesse dato uno schiaffo alla tuo ennesimo capriccio, avesse avuto il coraggio, la vita di tutti sarebbe stata diversa. Presumo migliore.
No. Non è quel viso, quella luce che ricordo quando chiudo gli occhi e ti penso.
Ma la brace della tua sigaretta che cerca di contrastare l’oscurità nella quale ti chiudevi. La luce rossa intermittente di quando mi portavi a dormire con te di pomeriggio, da bambino, in due sul mio letto, testa a piedi, perché io dormendo non ti disturbassi il riposo. E vedo quella luce accendersi e spegnersi alternata al rumore che facevi per scrollare la cenere nel posacenere di rame sbalzato che ora fa mostra di sé, come un reliquiario, tra gli oggetti che ho conservato. E la stessa luce, nella cucina scura, tenevi sempre le tapparelle abbassate, mentre severa mi giudichi –mi giudicavi sempre trovandomi sempre colpevole per potermi donare la tua misericordia, cosa che ti faceva felice perché ti permetteva di crederti magnanima- e stai in silenzio, fumando, toccandoti i capelli, torcendo la bocca e gli occhi curvando al suolo, sospendendo il tempo, così da prolungare la mia sofferenza e la tua soddisfazione.
Eppure mi amavi, tanto. E volevi tenermi per te. Solo per te. E anch’io ti amavo, ti amo anche ora. Come potrei non amare chi mi ha dato la vita. E che, tragicamente, per conservarmela felice, ha spento dentro di sé quella di due fratelli che non ho mai avuto. Così come spegnevi la sigaretta, con rabbia e rapidità. Sono un sopravvissuto, mamma. Un figlio unicizzato. Un bambino bagnato nel sangue dei fratelli ed elevato a divinità, con il compito di tenere insieme la famiglia perché tutto si fa per lui. Tutto. Come un buco nero che attragga ogni cosa a sé, strappandola alla sua esistenza, macinandola in un affetto che si macera nell’autocompiacimento. Perché l’amore per me, me ne sono accorto presto, in realtà era un pretesto, uno specchio: avevi così tanto bisogno di affetto che mi imprigionavi in quell’abbraccio che assomigliava di più alla presa di un rapitore che alla protezione di una madre.
Mamma, questo acido mi cola ancora in cuore adesso che ti parlo, qui in piedi davanti a quel che rimane di te qui in mezzo a noi, e non riesco a discernere il bene dal dolore, a tirare una riga secca tra il tuo egoismo e il mio, tra la tua sofferenza e quella che provocavi con una scienza quasi perfetta.
Perché soffrire hai sofferto, e spesso per causa di altri, anche se negli ultimi anni i tuoi ricordi spesso venivano annacquati dalla fantasia, da ciò che temevi, volevi, speravi. E la violenza subita si confondeva con quella che desideravi aver ricevuto per poterti vendicare e vantare. Ricordo gli ultimi giorni. Di agosto, sulla terrazza abbruciata della casa protetta. Biascicavi parole, parlavi a sproposito, criticavi, mi chiedevi, pretendevi. Niente di diverso. Eppure dovevo capire che erano le ultime ore e restarne appeso come ad un ramo che ti salva dall’abisso. E invece l’ho lasciato andare e invece di precipitare io, sono rimasto sospeso e nella voragine sei caduta tu.
E mamma, mentre non riesco a rimuovere quella rigatura d’odio che attraversa la nostra vita in comune -sapessi quanto ci hai fatto soffrire, madre mia- adesso non posso che sentir crescere l’affetto nuovo, purificato, rafforzato che nasce da una vicinanza nuova, separata solo dal sottile velo del cielo.

venerdì 4 dicembre 2015

Tramonti di inciviltà



LaCroce 2 dicembre 2015


Farenheit 451 racconta un mondo che ripugna a tutti. Insomma non ci piace un futuro senza cultura. Senza libri. Un mondo appiattito e dominato dalla televisione, che quando Bradbury scrisse il romanzo, era l’emblema del Grande Fratello ovvero del controllo del pensiero (va bene essere visionari, ma ad Internet l’autore dell’Illinois proprio non pensava).
Non c’è qualcuno che non provi sgomento e rifiuto per questo mondo stretto nelle morse del potere.
Eppure è proprio lì che ci stanno conducendo esattamente coloro che sdegnosamente rifiutano un futuro dominato dalla tirannia del pensiero.
Perché alla radice del mondo di Farenheit 451 c’è la politically correctness. Ma va? Riprendiamo un brano forse dimenticato che dipinge, con crudele spettacolarità, la nostra epoca:  "La vita diviene una cosa immediata, diretta, il posto è quello che conta, in ufficio o in fabbrica, il piacere si annida ovunque dopo le ore lavorative. <...> La vita diviene così un'immensa cicalata senza costrutto, tutto diviene un'interiezione sonora e vuota. <...> Tutti sono sempre più impazienti, più agitati e irrequieti. Le autostrade e le strade di ogni genere sono affollate di gente che va un po' da per tutto, ovunque, ed è come se non andasse in nessun posto. <...> Consideriamo ora le minoranze in seno alla nostra civiltà. Più numerosa la popolazione, maggiori le minoranza. Non pestate i piedi ai cinofili, ai maniaci dei gatti, ai medici, agli avvocati, ai mercanti, ai pezzi grossi, ai mormoni, ai battisti, unitarii, cinesi della seconda generazione, oriundi svedesi, italiani, tedeschi, nativi del Texas, brooklyniani, irlandesi, oriundi dell'Oregon o del Messico. <...> La gente di colore non ama Little Black Sambo. Diamolo alle fiamme. Qualcuno ha scritto un libro sul tabacco e il cancro ai polmoni? I fabbricanti di sigarette e i fumatori piangono? Alle fiamme il libro! Serenità. Pace. I funerali sono dolorosi e pagani? Annulliamo anche i riti funebri».  "Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno viene fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro".
Drammaticamente attuale non vi pare?.
Guardiamo ad alcuni fatti della settimana, per dare profondità a questo scenario: Monica Ricci Sargentini, giornalista del Corriere della Sera di elevatissima onestà intellettuale, pubblica su la 27esimaora, rubrica del CorSera online, un articolo riportando il parere di movimenti femministi a proposito dell’utero in affitto che condannano questa pratica di abuso della donna. Viene denunciata all’UNAR per omofobia. Se fosse in vigore la legge Scalfarotto sarebbe passibile di carcere. Numerose giornaliste intervengono a sostengo della collega: in un articolo apparso su Lezpop.it tutte vengono bollate con l’etichetta di omofobe.
Non basta: si moltiplicano in Italia le iniziative di inappropriati dirigenti scolastici che vietano canti, presepi, manifestazioni natalizie che si rifacciano al senso stesso della festa: la nascita di Gesù.
Dacia Maraini, una di quelle firme alle quali non possono dire di no i quotidiani radical chic anche se vorrebbero farlo, blatera di un “savio e civile relativismo” che sarebbe foriero di una “umana e tollerante convivenza” ovviamente da contrapporre alla “fedeltà ad un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo”: parla di Islam ma pensa, si capisce, anche al cristianesimo.
Il laicismo si guarda allo specchio e pretende che l’equidistanza, anzi l’equivicinanza come ebbe a dire una volta D’Alema, sia appunto l’annullamento di ogni valore, la distruzione sistematica di radici culturali, l’annichilimento della regione e della realtà a favore di un piattume che non può reggersi in piedi, perché il vuoto che lascia è subito riempito dal più forte. Che, fregandosene bellamente della spocchiosa tolleranza, spedisce i suoi panzer –o terroristi- a conquistare i territori privati delle difese, svuotati dall’interno.

A margine osservo come questo fenomeno succeda sempre, tutte le volte che si pretenda di sostituire muri con ponti in modo arbitrario. Se infatti è bene andare incontro, movimento che produce vita, è un errore grave farlo iniziando dalla distruzione dei propri muri, costruiti non a difesa ma per definizione, non per impedire l’uscita ma per descrivere il cuore.
Ogni volta che si presuma che per andare dall’altro bisogna nascondere, quando non rimuovere, ciò che si è –paradossalmente lo afferma anche Michele Serra dopo che lo ha gridato ai quattro venti Matteo Renzi, interpretando un sentire comune (altrimenti non si sarebbe esposto)- si finisce per farsi conquistare non dall’altro, ma dal nemico.
Nessuno può essere favorevole alla guerra, ma se il tuo nemico ti attacca è bene difendersi come si deve.

Cosa fare per sconfiggere questo cancro del pensiero, che attacca la lingua per attaccare i valori?

Iniziare da noi, perché la politically correctness ha radici nel nostro egoismo. Lo afferma magistralmente Bradbury, lo abbiamo sentito: Tutti sono sempre più impazienti, più agitati e irrequieti.
Quando iniziamo a ragionare partendo dal nostro ombelico, quando è il nostro punto di vista quello che determina la realtà, allora tutto si sfarina ed esplode in una nuvola di silenzio. Finisce l’eco stessa del pensiero.
Non posso più usare le parole perché qualcuno si offende: pensiamo all’inquietante reato di georazzismo per cui gli sfottò locali sono denunciati come crimini contro i localismi. Il che vuol dire che eccelsi esempi di ironia, come lo striscione dei tifosi viola “voi comaschi noi co’ le femmine” oggi sarebbe considerati doppio reato: lariofobia e omofobia. Ma lo stesso Dante Alighieri, a cui si devono epiche invettive (ahi Pisa vituperio delle genti!) oggi sarebbe denunciato alla UNAR.
Oggi non si possono più fare iperboli o parabole, non si può più giocare sulla violenza di alcune espressione, le barzellette stesse sono considerate con sospetto perché tutto è sempre incline ad offendere qualcuno.
Che se la prende.
Navigando nei social capita così di incrociare insegnati, genitori, professionisti pronti a caricare a testa bassa perché, partendo dalla propria circostanziata realtà, si offendo se qualcuno parla male del mondo dell’istruzione, delle Poste, dei portatori di qualche patologia (guai ad utilizzare termini come autismo, dislessia, favismo, ipertiroidismo, claudicanza come metafore di situazioni complesse!), del lavoro, ecco che scendono in campo per difendere il mondo guardando solo la propria cucina e affermando che poiché loro, da loro, intorno a loro, quello non accade, allora non può accadere!
In palese contraddizione logica, negano la possibilità di generalizzare generalizzando loro ciò che osservano o praticano.
La battaglia contro la politicaly correctness, che è la strada per distruggere i valori, si fa affermando la propria debolezza e credendo nell’auto-ironia. Un mondo che non sa ridere di sé è destinato al suicidio.
Solo offrendo il petto alle critiche, invece che chiuderci nella difesa dall’ultima inventata qualcosofobia, riusciremo a difendere i valori sulle mura lontane dal cuore. Possiamo fare qualche cosa di concreto rinunciando a guardarci l’ombelico e a pensare di essere il mondo. Del resto è ciò che una società senza padri, colui che appunto afferma che il mondo non sei tu, fatica a fare.
Sono convinto che se non si ricomincia da qui, dal gusto della contesa verbale onesta e sincera, dal gusto dell’iperbole e della violenza del ragionamento, violenza intesa come forza capace di strappare la maschera e liberare la verità che oggi viene sepolta dalla correttezza politica che è solo ideologia, senza questa forza che strappa l’eccesso per rivelare la vera forma nascosta, finiremo preda dell’ISIS del ragionamento, dei terroristi del piacere, capaci di renderci schiavi in nome della libertà, quella dei loro vizi, che alla fine, deridendoli, li metterà in catene e li getterà –ci getterà?- nello stagno di zolfo e fiamme.

domenica 29 novembre 2015

Il racconto della domenica: guardami!



E guardami! E daì guardami! Tu che passi, chiunque tu sia. Che ti costa! Anche solo per deridermi, per insultarmi, per scuotere la testa in quel modo volgare e violento, che percola disgusto misto a disprezzo. Ma almeno guardami. Non fare finta di nulla. Perché credi che mi sia ridotta così? Perché pensi stia distruggendo la mia dignità così come la natura ha distrutto il mio corpo se non per ottenere uno sguardo? Anche lascivo. Sebbene tema che nessuno lo poserà più su di me con desiderio. Semmai con scherno. Mi basterebbe. Sarei felice di non passare inosservata. Come mi è successo a lungo nella vita. Perché nessuno ha mai posto su di me uno sguardo assetato. Una sensazione dolorosa, che avvelena lentamente l’anima e la fa implodere in una depressione spenta e arida. Camminare tra le strade della città, al mercato, e accorgerti che non sei degna neppure di un movimento del capo. Perché invece li vedo quando girano la testa e tutto il resto quando passa una di quelle, sì, di quelle ragazzine che hanno tutto da mettere in mostra e non negano niente.
Mentre io invece. Fin da giovane. Fin da ragazza sono stata condannata. Da un corpo goffo, sformato, gonfio. Non che non mangiassi, no. Ero affamata di sensazioni, quindi anche di cibo. Ma non fu questo. No.
Mi cresceva addosso come un tumore, mi rovinava sopra questa massa turgida e ruvida che mi ha nascosto al mondo. E io ne sono rimasta prigioniera. Ma almeno allora, quand’ero ragazza, al paese, almeno allora c’era chi mi inseguiva per insultarmi, per schernirmi. Mi sentivo viva, dolorosamente presente al mondo. Poi, come una nebbia che s’alzi pallida e smorta, e via via più coraggiosa, così sono scomparsa all’esistenza.
Il trasferimento in città. Gli studi. Inutili devo dire. Non hanno aggiunto una goccia di felicità alla mia vita. Solo conoscenza. E con quella semmai ho accresciuto il dolore. Poi un lavoro bieco, ripetitivo, individuale, in un cubicolo che mi separava netto, come una roggia profonda, dai colleghi che dilagavano al di là della paretina. Una voce al telefono. Poi neppure quella. Poi la pensione anticipata.  Anni di lavoro sciolti in un saluto formale e stropicciato, condito di indifferenza e scherno. Neppure quel giorno sono riusciti a superare la barriera del mio corpo per calarsi non dico nella profondità, ma almeno sotto la superficie e cercare di capire. Che serve a loro capire? Che servivo io? Che se non servi oggi, per qualunque cosa, sei finito: allontanato. Fine del lavoro, fine dell’impegno.
E sempre la solitudine.
Che non sono vecchia. Non fuori almeno. Non all’anagrafe. Ma dentro eccome. Perché a non sentirsi amati, si brucia. Non però di quel fuoco che non consuma e arde perenne, come dicono sia l’amore, che io non ho mai conosciuto, neppure da bambina. No. Non quello.
Io avvampo di quel calore trasparente e violento, quello dei forni, che crema, che riduce in cenere, che lascia senza speranza. E la speranza ormai io l’ho persa, non dico dell’amore, ma anche solo di un tepore mite. Anche ipocrita. Mi starebbe bene. Mi farei truffare da un uomo, se per spogliarmi dei miei beni, quelli che comunque ho accumulato in questi anni di silenzio e di reclusione, mi rivestisse anche per un solo momento di un affetto manieroso ed eccessivo, palesemente finto. Anche solo di sesso. Anche di quello mi accontenterei.
E così mi sono ridotta ad essere questo pagliaccio, questa prostituta dell’anima: a mettere fuori questa carne in decomposizione, che si arrotola su se stessa confondendo inizio e fine. C’è pudore in tutto questo? Sì, perché ormai in queste rovine non si distingue più nulla che possa bruciare la mia intimità. Tutto è disgrazia. Deformità. Eppure sento di calpestare la mia dignità. E non me ne frega niente. Perché chi si riempie la bocca con questa parola probabilmente non ha mai sofferto il mio dolore, non è mai stato solo. Io sì. Sempre. Rinchiusa dentro il carcere di un corpo esagerato che mi ha impedito di essere scorta. Di vedere. Di capire.
Ma che cosa c’è da capire! In quest’epoca che esalta la bellezza e la rincorre senza posa, in quest’età che magnifica il corpo e ne ha paura, io scorgo il terrore sui loro occhi, il terrore di essere come me, di finire come me, di venire calpestati, messi in un angolo. Io questo ho capito. E solo adesso riesco a ribellarmi.
E guardami daì! Tu che passi adesso e volti il capo dalla parte opposta con gesto affrettato e teatrale, come per istruirmi, per condannarmi, per umiliarmi. Più di così? Potrei essere più umiliata di così? Perché non capisci? Perché non esplori? Perché non ti sforzi di superare quella sciapa barriera della tua superficialità, del tuo orizzonte così gretto e chiuso, che non riesce ad accostarsi alla vita per quello che è: non un secco fotogramma, ma una pellicola senza fine. Con solo l’inizio e mai titoli di coda. E tu invece te ne stai lì, intrappolato nell’attimo che fugge, e non capisci che invece resta, resta per sempre, e si estende, in tutte le direzioni. Come la mia vita. Come la mia carne che scioglie la mia figura in una storia di solitudine totale.
Guardami: rendimi un filo di stima, che la mia in me stessa l’ho persa. Fammi pensare, anche per un solo istante, che posso lasciare una tenue traccia su questa terra, che posso avere sfiorato per un battito d’ali il cuore e la memoria di un’altra creatura. Che non è stato vano venire al mondo. Che non sarà insulso andarsene.

No, non  funzionerà neppure questo. Non è servito a nulla scendere fino in fondo al cratere del disonore. Fino al fango dell’esibizionismo. Neppure questo è servito per trovare un filo di speranza, un rigagnolo di luce che sappia restituire un po’ di futuro a questo ammasso di depressione. Forse non resta che cercare l’ultimo sguardo, quello di terrore, quando scioglierò la mia vita sopra un binario. O sotto un camion. Affermando il diritto di essere guardata almeno mentre mi dissolvo.

La liquidità della ragione



C’è un gender che pervade l’Europa, e non è solo quello che nega la natura della persona e la affossa in uno stormire di desiderio, che confonde la realtà nelle proprie voglie.
Quale che siano e con quali presupposti.
C’è una liquidità che sale alla gola, che ha ormai gelato il cuore e tende a strizzare nella sua morsa anche la ragione. Ed è la liquidità del senso, la confusione della logica, la disgregazione del senso.
I miei primi articoli apparsi sul La Croce, che trovate riportati qui in questo blog,  mi ero proprio concentrato sul cancro della parola, che stravolgendo il senso di alcuni vocaboli chiave, dissolve il ragionamento nello sforzo di disperdere la realtà. Perché questo è il compito delle ideologie, che altro non sono se non pretese di realtà, false interpretazioni, basate su idee sbagliate, del mondo per renderlo schiavo ai propri desideri. Il mancato riconoscimento della pari dignità di ogni persona vale quanto la follia che alcuni possano determinare da sé ciò che sono, quasi rimescolando le proprie cellule e il proprio DNA per plasmarlo secondo le proprie aspirazioni.

La medesima cosa capita con il ragionamento, la follia di voler negare le contraddizioni si cela nelle pieghe di un linguaggio asservito al potere dominante.
Così ti scontri con la violenza di chi ha già deciso quello che deve essere e schiera in campo le sue truppe agitandole a colpi di slogan che non fanno che dimostrare l’incapacità di molti di mettere sul tavolo gli elementi e svolgere un pensiero logico completo.

Mi ha sempre incuriosito, ad esempio, come coloro i quali, ogni volta che ci sono rumori di guerra, scendono in campo in campo sotto i vessilli di “mai la guerra senza se e senza ma” siamo spesso i medesimi che ogni 25 aprile inneggiano alla Resistenza e ai suoi valori, di fatto contraddicendosi in modo feroce, dato che non risulta che i partigiani fossero coloro che, puntando sull’aggregazione dei tedeschi moderati, mettessero fiori nei cannoni propri e in quelli nazisti per scacciare il nemico. E dico questo senza nessuna, e ripeto nessuna, voglia di scendere in guerra contro chi chessia!

Trovo però un crescente livello di dissociazione, o se preferite di liquidità razionale, per la quale ci si trova a sostenere una cosa e il suo opposto in funzione di ciò che fa comodo –e qui ci sarebbe una maliziosa e scorretta ragionevolezza- o, peggio, a seguito di una radicata incapacità di seguire un filo logico, dominati dalla moda del momento, che fa colorare il proprio profilo secondo le scelte di zio Zuck –almeno la trasparenza tricolore ha scacciato quella arcobaleno- o secondo lo slogan da gridare al momento.

Già più volte è stata svelata la follia di chi si sente Charlie e poi vuole impedire alle Sentinelle di stare in piedi –aggressione fascista è noto- o a opinionisti di dire la loro. Charlie sono io solo quando mi dice cose che mi fanno comodo, mi piacciono, sono gradite ai manovratori della società e ai padroni del vapore. Il pensiero invece diventa fascista quando non mi dà ragione.

Quando però scopri nei social media persone che si presentano come intrise di carità -e non voglio essere né polemico né offensivo: lo scrivo in modo esplicito- e poi sparano a zero senza nessuna misericordia per chi non la pensa come loro. Un po’ come quella famosa battuta “io questi che amano la violenza, che non porgono l’altra guanci, che sono privi di alcuna carità, io questi li ammazzerei a mani nude facendoli soffrire senza alcuna pietà”.

Altri, liberi pensatori, amanti di ogni opinione, non perdono occasione per deridere –pratica estrema di disprezzo- coloro che mostrano di credere in una dimensione non-materiale. Libertà di pensiero sì, ma di nuovo, solo per coloro che la pensano come me.

Alcuni politici penta stellati sono prontissimi a dialogare con i terroristi di Isis, che sono poveracci che sbagliano, ma rifiutano di incontrare chi dissente da loro a proposito di alcuni argomenti d’attualità, come le modalità di ricerca. Sempre a proposito di dialogo, i terroristi sono al top dei desideri di incontro, mentre personaggi meno aggressivi sono messi all’indice: un esempio clamoroso per tutti la cancellazione della visita di Benedetto XVI alla Sapienza nel 2007.

Colpisce come i terroristi che uccidono gridando il nome del loro Dio, o i tifosi che fischiano il minuto di raccoglimento per le vittime di questi inneggiando ai martiri e alla divinità, siano sedicenti musulmani, mentre quando è un esponente di altra religione a commettere crimini in nome di una distorta visione del suo credo, allora si tratta non di terroristi o assassini, ma di estremisti o fondamentalisti. Così sono stati estremisti ebrei a mandare a fuoco la chiesa cattolica di Cafarnao e sono integralisti cristiani –tanto poi finisce che la colpa se la prendono i cattolici- che assaltano le cliniche abortisti. E sono sempre fondamentalisti cattolici quelli che manifestano contro quei disperati che vogliono amore libero e libera genitorialità.

Parliamo poi anche delle piazze, che si allargano e stringono secondo piacere: così quando vengono invase dal festoso popolo della sinistra gli zeri aumentano, mentre se ci vanno le famiglie Crozza disserta di densità e impenetrabilità dei corpi.
Se poi in piazza ci vanno i musulmani moderati, poche centinaia, intanto si fanno le foto dal basso per negare i numeri, poi comunque quello che conta è l’intenzione, mica altro; bastano 400 persone –si dice siano questi i numeri di Roma, insomma neanche i sostenitori del Borgorosso- per segnare un forte cambiamento, una chiara risposta, un messaggio duro e puro. Non bastano invece un milione e passa di persone -quelle del 20 giugno- perché si tratta di un ristretto numero di fondamentalisti.

A parte che non mi pare che gli alleati avrebbero fatto molto, cercando di coinvolgere i moderati tedeschi per sconfiggere Hitler, a parte che Gandhi ha potuto lanciare l’approccio della non-violenza perché di là c’erano gli inglesi –e infatti dopo con i musulmani non gli è riuscita altrettanto bene- direi che a me non mi piacerebbe essere etichettato come moderato, che mi suona più come tiepido, cioè colui che verrà vomitato dalla bocca di Dio, o ignavo per dirla con Dante, genti così prive di midollo da non meritare neppure un posto dentro l’inferno.
Perché con le parole bisogna stare attenti: fondamentale è ciò che tiene in piedi, senza il quale tutto crolla, e quindi chi si rifà alle fondamenta della propria Chiesa, del proprio credo, è quello che si aggrappa a ciò che sta in piedi.  Quindi moderato suona più come blando, disinteressato. Se vogliamo trovare un termine cerchiamolo nella teologia per favore, non nella passione da stadio: lei tifa per la Roma? Sì, ma moderatamente. Adelante Pedro, con juicio insomma, come disse il Cardinal Ferrer.

Ecco qui credo ci sia un’altra battaglia da fare, ma senza scendere in piazza: basta lottare alla macchinetta del caffè, all’hashtag, alla fermata della metro, in mensa, fuori da scuola. Ed è la battaglia della coerenza logica. Colpire con roncolate di razionalità, mettendo uno accanto all’altro i fatti per mostrare che si negano e ciò che resta è il vuoto pneumatico di chi non sa se non ripetere senza costrutto ciò che gli altri vogliono mettergli in bocca.


E no, proprio no, non si tratta di chi crede nella verità rivelata, perché quelli sono condotti sulla strada della ragione con veemenza dalla Chiesa tutta.

sabato 21 novembre 2015

Il racconto della domenica: che ne sapete voi dell'amore!



Ma che ne sapete voi dell’amore! Mica dove andare a cercarlo nelle pieghe della vita. Vi vedo che mi guardate di nascosto, fingendo di fotografare il panorama dall’altra parte della baia. Ma state guardando me che ho il coraggio di mettermi in posa, qui su questo muretto. Dove inizia la mia vita. Perché questa foto farà il giro del mondo. Mi disprezzate. Non cogliete la mia bellezza. Non, non parlo di quella interiore. Quella non la conosco. Mi sfugge. Non riesco a stringerla tra le mani neppure quando al mattino mi sporgo dalla finestra per riuscire a vedere il mare giù dalla collina, nascosto dal fitto intreccio di palazzi sporchi, e mentre assaporo la prima sigaretta del giorno, cerco di non pensare altro che alla mia vita, ai miei sogni, e di scendere in profondità dentro di me. L’ho letto su una rivista: calatevi nella caverna della vostra anima, stanate il drago nascosto e ruggite alla vita. Io ci provo, ma quando mi chino dentro trovo solo dolore, delusione, sporcizia: insomma, la mia vita. E non riesco più a ritrovare il filo che conduce a me stessa. Quando l’ebbrezza supera il limite che posso tollerare, e che riesco ogni giorno a spostare più in là, quando la sigaretta sta finendo, quando sento il fischio del caffè, quando riesco a ritrarmi da questo guazzabuglio nel quale ho paura ad avanzare, volgo lo sguardo verso la mia casa e piango. Non tutte le mattine. Spesso. Perché in questo minuscolo appartamento, scavato nella presunzione di chiamarlo dimora, messo assieme con pezzi sghembi, diseguali, assediato da un ordine maniacale per dare dignità alle quattro carabattole che parlano di me, in questo ciarpame c’è la mia storia. E soprattutto il mio futuro.

E’ della mia bellezza esteriore che sono orgogliosa. Quello che mi lancerà verso un futuro dal quale vi sorriderà irridendovi e voi proverete invidia e vergogna. Guardatemi. Non ho paura a sorridere all’obiettivo. Tra un istante lo farò. E alzerò lo sguardo che ora tengo accorto e pensoso. Mi fa paura. Ma posso farcela. Rizzare il capo in un gesto di sfida al mondo, a San Francisco che sta alle mie spalle al di là del mare, e sorridere a questa vita che mi si nasconde di continuo. No. Non sono stata sfortunata. E’ un alibi che lascio alle sciantose che incrocio quando vado al lavoro. Piagnucolano millantando insuccessi provocati dalle circostanze. Invece io no, con orgoglio mi vanto di aver sbagliato tutto quello che potevo e che questa vita insipida, inavvertita, banale, che scivola tra le ombre della città, è il frutto della mia libertà. E dell’amore. Che non ho mai trovato inseguendolo sempre nelle persone sbagliate. Al punto che ormai mi chiedo, nei fugaci momento in cui scroscia dentro di me una consapevolezza morbida e tiepida, se non sia io quella che ha sbagliato a capire che cosa l’amore sia realmente. Eppure è così chiaro quando lo vedi in televisione. Entri in uno di quei bar e ne esci con la felicità. L’ho fatto. Sembrava così semplice. Ho scelto. Non mi sono mai fatta usare. Tutto ciò che ho trovato è un letto da rifare. Lenzuola da lavare. Toccava a me. E ogni volta un gusto amaro che nasceva piano, sommergendo quel senso di carne accesa e compiaciuta, e poi montava come un’onda gagliarda per non sommergere, ma accarezzare ogni cosa e avvolgerla e lascarle addosso una patina prima brillante poi via via sempre più opaca fino a diventare grigia come caligine. Ecco questo è il colore della mia vita: seppia. Come le foto che scolori artificialmente per fingerle vecchie. Io sono vecchia. Ma dentro, non fuori, che ancora gli uomini mi inseguono. E i vostri occhi. Spenti e giudici. Ve la farò vedere. L’ho deciso oggi, quando ho raccattato questo slavato ometto per convincerlo a venire qui a farmi queste foto, quelle grazie alle quali la mia vita cambierà. Gli sfuggirò dopo. Rientrati in città, lo lascerò a bocca asciutta. Dopo che mi avrà restituito la dignità regalandomi questi scatti.  Le stamperò, con cura. Nel corner del magazzino dove lavoro. Chiederò un favore. Me lo concederanno. Poi la più bella la metterò in cornice. E l’appenderò sul muro. E guardandola, ogni sera e ogni mattina, mi renderò conto di quello che avrei potuto diventare. E troverò quel filo che forse potrà condurmi via da qui.

giovedì 19 novembre 2015

Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non vogliamo





Le liste di Fazio e Saviano.
8 anni di Obama
Il crocefisso nell'urina patrocinato dallo Stato
La festa dell'inverno per non turbare le coscienze
I ponti e i muri
La “lotta” per i matrimoni LGBT
L'utero in affitto
La rimozione delle radici cristiane d'Europa 
La politically correctness
I radical chic
Se sei cattolico come puoi votare?
Mai la guerra senza se e senza ma. Evviva la lotta della Resistenza contro il nazi-fascismo.
I #jesuis senza capire
Le connivenze cattoliche, quelle adulte.
Gli adulti con qualunque finta appartenenza
L’aborto e la soppressione degli embrioni malati
Il “la mia libertà finisce dove inizia la tua”
La società liquida senza contenitori
I “chi sono io per giudicare” manipolati
“Sono solo ragazzi”
Denunciare la maestra che rimprovera tuo figlio
Vietare la mostra di Van Gogh e Chagal per non turbare le coscienze
La primavera araba
Esportare la democrazia
Il cattolico non ha diritto di esprimere le sue idee politiche
Tirare la giacchetta alla misericordia
Il diritto al lusso
Va’ dove ti porta il cuore
Ho diritto.
I “Sarà di cattivo gusto, ma c’è la libertà di espressione” a senso unico
Gli assalti alle Sentinelle in piedi
Saviano e Fazio. E la Litizzetto.
I talk show su La7
I prelati che sperperano denaro
“Con Isis dobbiamo dialogare”
La presidenta.
Il furore leghista.
I ROM sono da capire. No anzi da bruciare.
I funerali holywoodiani.
Era una persona onesta.
Scisc.
#Staisereno.
L’irrisione è sempre lecita, tranne quando è rivolta alla parte che governa l’opinione.
Tutto ma non Salvini. Beh, neanche Belpietro.  E Gasparri. E Razzi. Beh insomma tranne quelli lì.
Uccidere un fascista non è reato.
I sacerdoti conniventi con chi dissolve la verità. Chi dissolve la natura e la verità.
A me non risulta.
Da me non è mai successo!
Selvaggia Lucarelli. E Belen. E Morandi.
Bisognerebbe metterli tutti al muro
NOI DOBBIAMO INTERVENIRE AVENDO IL CORAGGIO DI GRIDARE AI FRATELLI MUSULMANI NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO!
Imagine. “immagina che non ci sia un paradiso e neppure una religione”.
Oriana è una pazza. No è una profetessa!
Una manifestazione per fermare l’orrore
Tingiamo i nostri profili Facebook
Buon vento, che la terra ti sia leggera
Gli altari laici, le preghiere atee, i minuti di silenzio
"Io sostengo che la Tav vada sabotata
Sabotare è un verbo nobile, lo usava anche Gandhi"
Giletti è da perseguitare: non può esprimere il suo parere su Napoli!
"La lista degli edifici imbrattati datami da un #NoExpo Qui si spiega perchè sono atti di protesta e di non vandalismo"
"e decapitazioni dei cristiani sono secondarie rispetto alla sofferenza dei musulmani"
"Non credo che queste persone abbiano fatto una discussione teologica a bordo"
"Mio figlio è solo un pirla".


Potrei continuare, le liste mi entusiasmano. È un modo molto infantile di sentirsi apposto, di stare sula lavagna dei buoni. E scrivere qui l’elenco dei cattivi.
Non che alcune di queste cose qui, che ho scritto con estremo godimento, non stia –e non solo nel mio sentire- nella lista dei cattivi, o per lo meno degli imbecilli. Meglio: dei cattivi maestri, delle cause prossime della devastazione nella quale viviamo. Che sopportiamo. Che ci schiaccia.
Non voglio negare che ci sia dentro un senso, una razionalità.
Non voglio negare che mi irritano i comportamenti irrazionali di chi segmenta il mondo fingendo di amarlo tutto. E la bella affermazione di Marco Cobianchi svela ogni inganno “Con molta, moltissima calma provate a spiegare (e a spiegare a voi stessi) perché Charlie Hebdo è libero di scrivere e disegnare ciò che vuole e Belpietro no”. E aggiungerei a Belpietro: le Sentinelle in Piedi…
Non rinnego la mia rabbia. La mia paura. La mia voglia di vendetta. Ne prendo le distanze, ma non la nego. Non la riesco a spegnere.
Anzi, ci tengo ad affermare che le belle frasi ad effetto ed eleganti che inneggiano alla pace monolaterale mi imbarazzano, perché mi paiono così lontane dalla verità. Che ti viene da chiederti: ma questi, questi che credono, che accendendo una candela, che colorando di tricolore il proprio profilo Facebook, che fotografandosi tenendo in mano un cartello con un hashtag di tendenza, questi che credono di sconfiggere i terroristi a colpi di tweet, questi che la guerra mai senza se e senza ma, non sono gli stessi che ogni 25 aprile scendono in campo a urlare il valore della Resistenza contro i nazifascisti? Perché non mi pare che i partigiani siano andati mettendo fiori nei loro, e altrui, cannoni… mah.
Ha ragione Giovanni Scrofani, un ruvido opinionista dei social media, che apprezzo per la capacità di scartavetrare le banalità, anche se qualche volta va fuori strada, quando scrive: “Riassumendo le brillanti soluzioni rinvenute in rete oggi... deportiamo tutti i mussulmani lontano dalle nostre città che i tedeschi negli anni '40 hanno movimentato un sacco di gente e funziona... vogliamoci tantissimo bene che poi ai terroristi gli passa la voglia di terrorizzarci... qualcuno (non io) dovrebbe fare la guerra che pone fine a tutte le guerre e ammazzare tutti e ferire seriamente i sopravvissuti... andiamo ai concerti e al ristorante come se nulla fosse che poi ai terroristi gli passa la voglia di terrorizzarci... mi chiudo in stanza a piangere... mandiamo Di Battista a dialogare con l'ISIS (hahahahahaha)... mandiamo Di Battista a dialogare con l'ISIS (serio)... c'aveva ragione Oriana c'aveva... c'aveva ragione Orietta c'aveva... mi cambio l'immagine del profilo così il Califfo piange... Peccato che durante la caduta dell'Impero Romano non c'erano i social sarei curioso di vedere come l'avrebbero raccontata”.
Ora Montale è stato davvero profetico in due delle sue poesie che amo di più. Tra le altre si intende.
C’era della lucidità auto-ironica nel suo Non chiederci la parola, che si conclude con queste mirabili parole “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Ecco, questo oggi sono io (beh questo lo diceva Alex Britti, ma è tutta un’altra storia). Non so cosa voglio, so cosa non voglio.
Non voglio questo mondo sporco che strappa le speranze. Non che ti fa rischiare la vita. No. Quella È  vita. Non lo scopriamo oggi. Oggi lo riscopriamo dopo l’ubriacatura che aveva tenuto lontana la morte, facendoci credere invincibili e immortali. Dovremmo tutti riascoltare Samarcanda. E non far cadere dalla bocca una preghiera purtroppo smarrita “a morte improvvisa libera nos Domine”. Liberaci dalla morte immediata, che poi vuol dire “regalaci un letto di sofferenza”, guarda caso ciò che proprio il mondo non vuole.
No. Non è la morte che spaventa, quella che ti aspetta fuori casa e non ti lascia neanche il tempo di salutare. Perché finire sotto un camion o sotto una raffica di mitragliatrice fa poca differenza. I tagliagole c’erano anche nel passato perché la cavallina storna riporta colui che non ritorna. Non è questo che fa paura, il sapere che esci da casa e non sai se ci ritorni o se ci trovi chi hai salutato al mattino. Perché ci sarebbe da ringraziare Dio solo per quetso.
È l’aver sottratto la speranza. Perché i muri strappati dai crocefissi non servono a costruire ponti ma a scavare fosse e generare prigioni. Perché se non ripartiamo da lì, dal senso dato alla vita, finiamo nella fossa comune. Ma ben prima di essere morti.
Torniamo a Montale e a Maestrale, che si chiude con questa verità “perché tutte le immagini portano scritto:" più in là "!”. Certo, bisogna leggere in trasparenza la realtà, guardare oltre con il capo alto. E riscoprire quello che san JoseMarìa Escrivà de Balager scriveva nei primi anni Trenta: “Queste crisi mondiali sono crisi di santi” che non vuol dire che bisogna spalancare ponti levatoi verso sponde che non solo non vogliono accoglierli, ma sono pronti a usarli per invadere i benpensanti. Ma che è ai santi che si deve chiedere la strada da seguire.
Diceva Giovanni Paolo II, santo appunto, che la soluzione ad ogni problema si trova cercandola nelle scritture. E nella preghiera. Che magari è quella che il beato Marco d’Aviano rivolge ai soldati prima della battaglia di Vienna del 12 settembre 1683 (capito perché l’11 settembre è avvenuto l’11 settembre?) o i rosari recitati nella flotta guidata da Don Giovanni d’Austria il 7 ottobre 1571, poi diventata festa della Madonna del Rosario.

Certo, ribadisco, non so cosa si debba fare. Non so cosa sia giusto e cosa non giusto. Non voglio che sulla mia pelle ci sia scritto #jesuisGiuda cioè l’apostolo traditore che si sentì tradito da un Dio che non volle farsi Re, vendicare i “buoni” schiacciando i cattivi e i nemici nella violenza. Non voglio questo. So cosa non voglio, ma non so cosa voglio.
E credo che con me, in questo limbo, siano in tanti. Un po’ come Giaro che, appreso della morte della figlia, si sente dire “non temere, continua solo ad avere fede”.

Che non è la cosa più facile da fare, ma di sicuro l’unica che abbia senso.

domenica 15 novembre 2015

Il racconto della domenica: per sommi capi




La passione è una bestia che si controlla facilmente, non fosse che per orgoglio: il sentimento no.
Con la passione ci giochi, l’accarezzi in coda al semaforo quando ti diverti a fissare e sorridere dentro le macchine dove un’affascinante ragazza accetta e ricambia la sfida dei tuoi occhi. Felici entrambi che tutto svanirà pochi secondi dopo, quando il rosso della passione si dissolverà nel verde del semaforo. Forse la insegui, giocando più con te stesso, e lei sembra accettare fino a quando un (im)provvido autista ti sbarra il passo e ti riapre le porte del tuo universo. Il sentimento ti scardina: come un vento, che sorge gentile per trasformarsi in tempesta, ti piomba addosso proprio quando gli vai incontro allegro e presuntuoso e ti rovescia come un guanto. Perché si appoggia sul tuo orgoglio.

Ti è successo: proprio quando credevi che non sarebbe mai potuto accadere: ti sei innamorato di un’altra donna. Ma non è una questione di carne, di quegli ardori che entrano dagli occhi e, grassi, scivolano giù oltre lo stomaco per fermarsi tra la gambe e scuotere. No: questo ti si è fermato nel cuore, come la piuma bianca di Forrest Gump, e non sembra volersene andare via. Sta lì, quasi nascosto, timido, ti sgrana gli occhi contro, stupito e svagato, come un bambino infreddolito che ti si ripara addosso e teme solo che tu lo voglia scacciare via, nel cuore dell’inverno. E come si fa a mandarlo via, nel gelo? Nella tormenta? Com’è facile crearsi degli alibi quando non vuoi guardare in faccia la realtà?
Che farai? Ti guardi addosso smarrito e non trovi una soluzione. Una sola soluzione esiste: è proprio quella che escludi in partenza. Perché credi di averne il coraggio.
E’ successo per caso: come avrebbe potuto altrimenti?
Non te l’aspettavi: tu così imbolsito nella tua sicurezza, nella tua spocchiosa certezza di non commettere errori, né tanto meno di aprire la strada a debolezze che annidandosi nella tua vita potrebbero mettere in forse il castello di moralità che ti sei costruito intorno. Eppure è successo: un granello di sabbia nell’ingranaggio, una concessione alla vanità, o forse soltanto la trascuratezza, e quel vento ha trovato lo spiraglio attraverso il quale insinuarsi. Come serpe nelle fessure del muro.
Una battuta lasciata cadere forse più per riempire un fastidioso vuoto che per comunicare una notizia importante: “la prossima settimana sono a Firenze per lavoro”. “Allora la invito a cena”. Un brivido. Hai lasciato cadere le cose, ma queste sono rimaste in piedi. Hai avuto l’impressione che lei insistesse e un primo sorriso, diverso dal solito, non dunque di serenità, ma quasi di vittoria, ha leggermente piegato le tue labbra. Non ce l’hai fatta a tirarti più indietro. Perché? Per vanità? Per il desiderio di sentirti desiderato, tu, proprio adesso che senti il tuo corpo disfarsi con dolcezza non sotto i colpi di un’età che scappa, non puoi pensare questo quando i quarant’anni sono ancora una frontiera lontana, ma per il leggero picchiettare del lavoro, come di quelle attività che senti così tue, che ti lavorano l’addome e i polmoni, depositando nel primo quello che sottraggono ai secondi. Desiderato poi? Per che cosa? Per chi? Che cosa è stato? Che cosa ti ha fatto abbassare quella tua guardia di cui sei così orgoglioso? Forse un orgoglio più grande? La pretesa di ricostruire? Di essere importante per qualcun altro, anzi, diciamolo con chiarezza, per un’altra donna?
Ecco sì, me ne accorgo cogliendo quel gesto, quasi impercettibile, di fastidio che ha preceduto il tuo sorriso: una venatura di tollerante ironia, come per allontanare -da chi: da me? Da te?- il sospetto. La vanità sa scegliere strade impervie e difficili per perforare l’anima e riemergere ammantata di sentimenti innocui: è quella macchia da sempre impressa nelle profondità dell’intimo, che spinge te, come ogni altro uomo, a cercare un’affermazione. Di più: l’affermazione. Un continuo, inarrestabile cammino che ha bisogno sempre di nuovo consenso, perché quello rinnovato non basta più. E’ questo che ti è sembrato di vedere? La caccia? Banale! Proprio per questa desiderata! Essere di nuovo dio per qualcuno?
Di certo, da quel momento è cambiato qualcosa. Hai atteso il giorno della partenza con la stessa ansia con la quale da bambino aspettavi la mattina di Natale. In macchina giocavi con la radio. Fermo all’autogrill, le briciole del panino ancora sulla barba, il respiro infastidito dalla puzza di fumo che inondava il locale, hai avuto una esitazione. Ti sei fermato con il telefono in mano, il numero già composto sul visore, il dito pronto a premere il tasto. Che cosa hai visto? Qualunque cosa fosse, non è stata più forte della tua agitazione. Hai pigiato, la telefonata è partita, lei ha risposto. Un po’ fredda per la verità, quasi distaccata. Hai avuto l’impressione che si fosse pentita di ciò che ti aveva detto solo pochi giorni prima. Hai avuto paura: non tanto di aver perduto qualche cosa che ancora non avevi, quanto di aver sprecato la tua sicurezza in un sogno che non aveva radici. Ti sei preoccupato più per il tuo orgoglio che per la tua tranquillità. Ti sei visto trascinato e deriso dalla tua vanità, gettato in mezzo alla piazza, umiliato, beffeggiato. Hai avuto paura.
La sua voce si è raddrizzata, ammorbidita, forse era solo la tua medesima tensione, la fatica della costruzione, un momento poco adatto. Avete combinato per la sera dopo. Ancora una giornata di attesa. E’ stato lì che hai cominciato a crearti alibi, a ingannarti con l’innocenza e la semplicità di una cena con una cliente, affermazione peraltro incontestabile. Un’angoscia di segno inverso ti ha allora assalito costringendoti a sedere. Un pensiero martellante che ha cominciato a combatterti ti ha persino tolto la voglia di mangiare. Te ne sei andato di filato nella tua camera d’albergo e ti sei buttato sul letto, la televisione accesa, fingendo di sfogliare libri e appunti di lavoro, come per prepararti alla giornata seguente. La cui sera è calata di schianto. Una mano che scuote i capelli. L’altra che chiude la porta della stanza. Il cielo strina di colori: brucia e sanguina al contempo. Come te. Un vente leggero si porta via il tuo onore. Bastava così poco: l’avresti creduto?
Hai preso l’auto, acceso la radio prima ancora di mettere in moto, e tutto ha cambiato velocità. La strada è volata via fino al parcheggio dove vi sareste incontrati. La musica è più galeotta dei libri: non so se avessi scelto apposta la voce di Michael Pfeiffer o se è stato tutto un caso, ma mentre attendevi, seduto in macchina, anche impaurito, guardando ogni vettura che ti si affiancava per riconoscere lei, quella My funny Valentine ti ha confuso ancora più le idee al punto che hai finito per lasciarle da parte e affidarti al cuore, che non sa spesso dove va. Finalmente lei è arrivata.
Sorride. Vi date del lei. State lontani. Sali sulla sua macchina. Cominci a parlare: lento, distaccato, professionale. Non sai che cosa vuoi. Neppure lei probabilmente. Arrivati. Parcheggio. Due passi. Il ristorante. Ordinate. Parlate di vicende ai margini; poi il cerchio si stringe: la tua vita, la sua vita, i ricordi, il passato, il presente. La voce ha cambiato tono. Uscite. E’ ancora presto. Si fa due passi per le stradine del centro. La temperatura è morbida. Lei ti cammina vicino, ti verrebbe quasi voglia di prenderla sottobraccio. Resisti. Vorresti fosse lei a farlo. Non lo fa. Ti dispiace. Ridete. Ti riporta alla macchina. Le avevi preannunciato un regalo, nulla di personale, solo un libro del quale avevate già parlato e che è collegato in qualche modo alle sue vicende passate. Glielo dai. Vi salutate. Lei si sporge e ti bacia sulle guance. “Ci rivediamo?” , ti chiede. “Se le fa piacere”, abbozzi ed aggiungi come per difenderti, “sarò qui di nuovo tra quindici giorni, se è libera e lo desidera mi chiami”. “Senza dubbio”, risponde e invece il dubbio comincia già a morderti.

E’ già tutto finito. Eppure quell’attimo nel buio, illuminati di taglio dall’insegna dell’albergo, mentre siete rimasti vicini, ti ha lasciato una ferita profonda. Come nei film avresti voluto fermare il suo movimento. Sporgerti piano anche tu in avanti e con delicatezza baciarla. Quell’attimo congelato in cui gli occhi si guardano interrogandosi e scorgendo gli uni negli altri angoscia e desiderio, ma di nuovo non una sensazione forte, carnale, quando una tenerezza infinita. Ecco, quell’attimo che non può che accadere una volta tra un uomo ed una donna perché poi tutto sarà differente, qualunque sia la direzione che le vicende prenderanno. E’ questo che desideri? Vivere una scena che ti è stata rubata nel passato? Essere protagonista di una nuova storia d’amore? Non lo sai neppure tu: ti affascina la sequenza di fotogrammi. E dimmi: che cosa sarebbe accaduto dopo? Non ammetti che puoi pensarci. L’amore oggi è merce al dettaglio e tu non vuoi comperare. La dolcezza è padrona più crudele della vigliacca passione: quest’ultima molla la presa quando la scuoti al mattino, la prima non morde neppure, scivola dentro. Non ti era mai successo. Accenderti sì, è la natura che si agita e ti vantavi di metterla a tacere, di saper voltare lo sguardo, a volte con un secondo di ritardo, al punto che l’immagine ti rimaneva addosso, non per molto però. Adesso invece guidi piano nella notte toscana, risali lungo l’autostrada declivi secchi e crudi mentre rientri in albergo. Ascolti una musica che tormenta: l’hai scelta tu questa volta. La stessa voce della stessa Michelle Pfiffer che canta ancora My funny Valentine: lo stesso struggimento, no anzi: diverso. Profondo, rosso e rumoroso. E tu non sai spegnere quella melodia così come non riesci a tagliare una vicenda che non è che all’aurora eppure scalda come se fosse a mezzogiorno. La colpa ti macera dentro, la ricacci cercando di annegarla con un fiume freddo di giustificazioni. In realtà aspetti come un bambino che l’incontro si ripeta, che quel piccolo amore cresca. Il sonno ti sorprende come un ladro, più per pietà sua che per tua scelta. Ma puoi ancora scegliere ormai?