Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

mercoledì 28 gennaio 2015

Il furto delle parole



Il furto delle parole
Come i media svuotano le #parole
apparso su Lacrocequotidiano 
del 27 gennaio 2015 


In un bello quanto antico telefilm –si chiamavano così all’epoca quelli che oggi sono più nobilmente serial tv- della serie Ai confini della realtà  (Parole in libertà 1985) un uomo perdeva progressivamente il significato dei vocaboli. Non era più in grado di chiamare gli oggetti per nome e privo così del terreno comune finiva per non riuscire più a comunicare con chi gli stava intorno.
Questa stessa idea, un incubo per chiunque oggi, disegnato sulla nebbia dell’Alzheimer (il delizioso mestolo di Barney), fu ripresa qualche hanno dopo dal fumetto Dylan Dog (dicembre 1995 albo gigante 4) in una vicenda nella quale il personaggio che perde il senso del linguaggio finisce suicida, rivelando l’importanza del comunicare per vivere. Senza senso si diventa pazzi.
Nell’epica e ben nota scena di Palombella Rossa Nanni Moretti schiaffeggia l’incauta giornalista che si abbevera di banalità sinistre apostrofandola con un bruciante “le parole sono importanti!”.
Già le parole sono importanti.
Perché le parole contengono dentro una saggezza che rivela molto della nostra vita e che può dare fastidio. E quindi oggi c’è chi vuol cancellare questa loro forza: coniuge e consorte sono molti diversi da compagno. Il pane lo spezzo con chi voglio e alzato da tavola me ne vado, la sorte o il giogo –quello che è leggero e felice- si divide per la vita.
Le parole parlano piano, sussurrano, gridano e dicono il senso: sono come cartelli che puntano più il là, per mostrare che c’è vita oltre il suono ed è una vita che va compresa per farla propria.
Le parole uniscono se si utilizzano nel medesimo modo, con condivisa pienezz : perché se le parole perdono senso diventa impossibile ragionare.  Logos in greco sta sia per parola che per ragione: una ragione ci sarà!  Se dunque vuoi combattere il senso, impedendo il dialogo sulla realtà, è le parole che devi attaccare per prime.
Una battaglia è già in atto: è la creazione –avvenuta anni fa- dell’antilingua, non quella di Calvino che attaccava il burocratese, ma quella di Liverani che mostrava come si cercasse di sottrarre il dolore e il crimine da atti violenti edulcorando l’azione con vocaboli incomprensibili o morbidi. Purtroppo non sono le parole che rendono giuste le cose, sebbene lo si pensi e lo si speri. Le parole descrivono non determinano. Né che le rendono cattive peraltro: definire omofobo un convegno sulla famiglia…. Va bé sapete già tutto, tirem innanz.
Oggi capita altro, oggi la guerra è differente: ci stanno rubando il significato delle parole e così finisce che non ci si capisce più. Non si può più discutere. Soprattutto non si capisce più la realtà. Succede ogni volta che l’uomo vuol farsi Dio, come a Babele.
Poiché vuole scimmiottare il Verbo, deve inventarsi altri linguaggi e non potendoli creare, cerca di cariare quelli esistenti, prosciugandone l’essenza come un dissennatore o impiantandosi dentro come i face-hugger di Alien che generano mostruosità erompendo dal guscio svuotato di vita.
La strategia è semplice: prendi una parola chiave – chessò: libertà, amore, educazione, genitore, matrimonio- e inizia ad eroderla lavorando sull’emotività (e in questo i media sono maestri, coltivano e moltiplicano l’emotività più Gesù pani e pesci, perché così si finisca per affogare la ragione nel pianto e nel godimento), svuotala da dentro e riempila di sensazioni che affogano la logica. E inizia ad usarla contro la sua reale definizione.
Facciamo un esempio: libertà che da mezzo è diventato fine.
Libertà in origine è una facoltà, uno strumento che permette il discernimento. E c’è chi ne distingue l’attuazione dalla possibilità: come spiega bene Frankl posso essere libero anche se internato in un campo di concentramento, ciò che mi viene sottratto è il libero arbitrio, la possibilità di attuare una scelta, ma mantengo sempre la possibilità di volere o non volere.
Quindi a libertà è mezzo che guida, meglio: è guidata dalla coscienza, ad agire per raggiungere un bene. In questo senso la verità ci farà liberi, perché più conosceremo la volontà più saremo liberi in quanto capaci di scegliere il bene.
Non è la libertà che farà il vero, come invece si sostiene oggi.
Irridendo non dico solo l’etica ma anche la coerenza, si pretende che la libertà sia fine ultimo, possibilità di scegliere senza costrizioni, poiché è la libertà a determinare che cosa sia bene e cosa dia male nell’atto stesso della scelta. Il che vorrebbe dire che qualunque cosa scelgo è lecita. Poi no però, perché parlare di famiglia è aggressione e quindi con la mano destra scrivo #jesuischarlie e con quella sinistra #convegnoomofobo. Ora è vero che il Vangelo dice non sappia la tua destra cosa fa la sinistra, ma forse non era in questo senso che lo si intendeva.
Oggi quindi finisce che libero è chi libero fa, cioè chi fa quello che vuole e così si riduce la logica e la coerenza a fascismo della filosofia.
Peraltro da questa manipolazione del senso nascono i conflitti di oggi: come si può trovare un terreno comune tra chi pensa che la felicità stia nell’esercizio senza limiti della libertà e chi pensa che nell’affidare la propria libertà ad una guida che nel limitarla le restituisca una felicità maggiore e senza fine?
Prendiamo amore che secondo la vulgata è significato a se stesso (love is love) e soprattutto non è un verbo, come dicono gli americani avvantaggiati dalla bivalenza della parola love, ma un sentimento che soffia dove vuole, specie sui genitali, i quali rinnegando l’etimologia non servono a generare ma a divertirsi.
Questa deprivazione di senso, questa tempesta che impedisce il dialogo, perché ognuno applica la propria interpretazione del termine, questa manipolazione che assonna le coscienze, è responsabile della separazione dal vero: quando si inizia a parlare si finisce per litigare per ore sul senso del vocabolo e quando alla fine trovi una quadra ti sei scordato del punto di partenza e di dove volevi arrivare.
Ma questo è quello che vogliono i gestori della cultura e i media, che così con le parole giocano da perfetti illusionisti senza svelare il trucco. I nuovi media ne amplificano l’effetto, la rete al giornale ne rimanda notizia, ma masticata, devastata, rimpastata in un senso nuovo che dell’originale non ha più nulla. Perché nella rete c’è sempre chi beve qualunque cosa, confondendo il lercio.it per fatto certo e non riconoscendo l’illogicità che a volte sta dentro la medesima frase: un tempo ci si esercitava con i paradossi logici “il cretese Epimenide dice tutti i cretesi mentono”. Oggi basterebbe leggere qualche titolo di giornale specie on line, o constatare che a fianco dell’ennesima tirata contro il maschilismo sessista campeggia la foto seminuda di una pubblicità o peggio di un pezzo porno soft.
Riconquistiamo l’etimologia, dichiariamo il dizionario patrimonio dell’Unesco, affidiamone la protezione al FAI, lanciamo una campagna aggressiva con una parola che sculetti e proclami “toglietemi tutto ma non il mio significato” (come testimonial propongo intimità o sottomissione o relazione che fanno di sicuro audience), fondiamo un movimento NoFAV (Furto Avvelenato Vocaboli), creiamo un evento durante Expo (il senso nutre il pianeta), ma non facciamoci rubare ciò che collega la riflessione alla realtà.

E per chiudere e istigare alla riflessione provo a raccontare qui con provocazioni verbali, ci sta in un pezzo sulle parole, questa distrofia linguistica descrivendone la deriva.

Limite
Serviva a separare, proteggere, definire. Oggi è solo da abbattere, perché tutto si conquista a prezzo della verità. L’importante è fini….re

Libertà
S’è affrancata dal PER e si è ammantata con DI e DA. Si è fusa con il libero arbitrio ed è diventata fine, finendo prigioniera del capriccio e delle mode.

Amore
Sceso dal verbo, è saltato a cavallo delle emozioni, dalle quali è trascinato e deriso,. Si guarda allo specchio per trovare quello che una volta si cercava fuori da sé, oltre sé. Onanismo della ragione.

Genitore
Sinonimo di possessore di figli, ha rinnegato la sua radice etimologica per assumere quella più conveniente

Educazione
Tirare fuori, esaltare il potenziale, indirizzare il talento: questa l’origine. Oggi insulto che implica autoritarismo, costrizione. Per evitarlo si finge di trasformarla in una offerta di valori tra i quali si può scegliere. Peccato che alcuni valori siano più uguali di altri.

Giustizia
Dare ad ognuno il suo. O dare la medesima cosa a tutti? E poi ognuno chi? Ci sono ognuno che sono più ognuno di altri. E nel dubbio meglio costruirsi la propria. E marciare per aggiustarne la definizione di volta in volta secondo gli interessi del momento.

Sesso
Una volta diceva quello che eri e la tua personalità. Oggi si fa, senza limiti e confini.  Ma non è un canto né libero. È solo animalità che si offre nuda a noi.

Figli
Siamo passati dall’avere –accogliere il figlio che arriva- a fare. Il prossimo passo è acquistare. Anzi no è già qui. E-baBy

Matrimonio
Dono alla madre. Poi sono diventati alimenti alla moglie abbandonata. Oggi è un’etichetta vuota di senso che rincorrono tutti salvo affermare, dopo, che è una prigione dalla quale scappare in fretta. Coerenza l’è morta.

Fare
Giannino o Prometeo? Ha sostituito avere, che può essere passivo, e soprattutto essere. Oggi sei ciò che fa, perché chi fa è dio: sesso, figli, soldi, quello che vuoi.

Saluto
Gli ebrei auguravano la pace, i greci la gioia, i latini la salute. Noi il benessere o la luce. O gli auguri di stagione. Che di per sé non hanno senso.

Diritto

Il retro della moneta dovere. Oggi qualunque capriccio.  Diritto alla autodeterminazione, diritto all’aborto, diritto al lusso. Manco il valore dell’aggettivo gli hanno lasciato.