Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 27 marzo 2015

Che male ti fa?





Pubblicato su LaCroce quotidiano in data martedì 24 marzo 2015


Altro giro, altra corsa, altro mito da smentire. La forza dei falsi miti di progresso si basa sulla confusione logica, come abbiamo visto la scorsa settimana a proposito del consenso.
Si basano sul cambio di prospettiva, di registro. Lo so che il direttore non ama l’autoreferenzialità, e ha ragione, ma non posso non citare l’articolo di Giuliano Guzzo a proposito dell’eutanasia del 20 marzo scorso in cui svela questi meccanismo di occultamento linguistico. Ecco, dentro queste manipolazioni del pensiero, questo mescolare istinti e ragione, questo lavorare sull’emotività per nascondere la logica, stanno gli attacchi dei falsi miti del progresso.
Vorrei condividere con voi oggi altre riflessioni su un altro dei vessilli innalzati per sostenere le derive alla verità.
Il mito in oggetto è “che male ti fa?”, speso fin dai tempi del referendum sul divorzio dove il mantra era sostenuto da “non per te ma per chi soffre”.
Andiamo per gradi.
Mi trovo a parlare con amici su come razionalizzare una provocazione trovata in rete: una coppia omosessuale si bacia in una foto da romanticismo cinematografico e una grande scritta supplica: “ma che male ti fanno?”.
Già, mi chiedo, che male mi fanno? Sento che c’è qualche cosa che non va, ma sentire non va bene. Potrebbe essere una mia fissa, essere io nell’errore. Ne parlo con loro e chiedo di aiutarmi a razionalizzare il tutto, senza però nominare Dio, che l’asso non funziona in questo caso.  Se ti giochi Dio sei fregato: basta risponderti “eh beh, ma io non credo, io non penso ci sia Dio per cui questo tuo ragionare per me non vale, per me non conta”. Ed è questa posizione che non fa una grinza, che non si può confutare.Per cui Dio fuori dal tavolo, la riflessione deve stare in piedi da sola.
Non se ne cava un ragno dal buco. A me non fanno male. Non si riesce a trovare perché invece dovrebbero farMI male.
Qualcuno dice: se poi si fanno un figlio, allora… Sì, va bene. Non dico altro perché qui su LaCroce questo è un tema ben noto.
Ma non fanno male a me, e poi si parla di amore, di love is love, non di adozioni.
Dice: sì, ma poi, da cosa nasce cosa… va bene, ma andiamo avanti piano, un passo alla volta. Se manca il fondamento iniziale… se non riesco a spiegare che male mi fanno?
Niente, gira e rigira non si esce.

Non mi fanno male. Vai a vedere che alla fine hanno ragione loro.

Poi, lenta, affiora un dubbio, un’idea si fa strada.

La domanda non ha risposta perché è la domanda che è sbagliata.
Non è ciò che mi fa bene o male ad essere importante, ma ciò che è giusto o sbagliato ad essere importante, le conseguenze di quello che accade. Non sono io al centro del discorso, la mia ferita, ma il senso della cosa, il bene o il male. La verità.

La domanda è sbagliata perché sposta l’attenzione dalla giustizia al piacere, al gusto, all’interesse personale.

Se un imprenditore corrompe un funzionario a me che male fa? Nessuno.
Se un fornitore corrompe un buyer privato a me che male fa? Nessuno.
Se un amico pianta la moglie e se ne va con un’altra a me che male fa? Nessuno.
Se un adulto ha un rapporto consenziente con un minore a me che male fa? Nessuno.
Perché non è del male a me che ci deve fregare qualcosa, ma dell’essere buono o cattivo in sé.
E il ragionamento è tutto diverso. Difficile rispondere in 140 caratteri, d’accordo, ma si deve ribaltare la vicenda.
Intanto rispondendo a una provocazione come quella in questo modo: “ma tu ciò che va fatto o non fatto lo decidi sulla base del male che fa a te o sulla giustizia?”
E quindi spostare il discorso, parlare di questa, di giustizia, di verità.
Perché se andiamo sul piano dei sentimenti abbiamo perso.

Prendiamo la vicenda del divorzio, che poi il meccanismo con il quale hanno demolito il senso e la verità è sempre quello: partire dai casi estremi facendoli diventare normali. Ma “normale” è diverso da “consueto” innanzitutto e poi l’estremo non è neppure “frequente”.
L’argomento è semplice: guarda lei come soffre, vuoi negarle la possibilità di essere felice come lo sei tu che non hai bisogno di divorziare? Come puoi negarglielo? Che male ti fa?
E si nega, si nasconde, come il cambio di paradigma, perché questo è, porta conseguenze devastanti.
Vediamolo da due angolature a partire dal divorzio e poi torniamo al primo punto.
Il divorzio accettato come rifugio estremo da un male insopportabile è diventato oggi divorzio breve, e ha trasformato il matrimonio da patto a contratto.
C’è un abisso tra queste due situazioni: la seconda è un accordo che non modifica i contraenti. Sottoscrivere una assicurazione, comperare una macchina, abbonarsi a una pay tv non mi cambia, non interviene sulla mia natura.
Sposarmi, stringere una alleanza, battezzarmi invece sì: perché è un patto, un accordo che cambia ontologicamente i contraenti. Non siamo più quelli che eravamo prima.
Se il matrimonio è un contratto cambia tutto. Ma vuol dire negare che io sono differente, che non sono più me, ma noi, un noi così potente da dare origine ad un nuovo io, una nuova creatura.
Vediamo le conseguenze sulla società: sapere che ogni matrimonio ha una via d’uscita anche rapida ha dapprima accelerato e semplificato la pratica matrimoniale. Dai che ci proviamo, se non va… Questa pratica ha finito per far perdere di senso al matrimonio: che differenza c’è tra sposarsi e non farlo? Tanto se voglio cambiare… Anzi non sposarmi mi facilita le cose.
Perché ci si sposa? Per le garanzie legali in caso di abbandono? Perché c’è la cerimonia e i regali? O perché costruiamo insieme una famiglia per sempre?
La negazione di un senso “per sempre” ha modificato l’attenzione verso il matrimonio: essendo contratto posso decidere se e come sottoscriverlo e come rescinderlo. Non è un caso che si fissino clausole paragonabili a quelle che legano gli sportivi alle loro squadre! Abbiamo modificato in profondità il senso dell’amore: da donazione a te, a interesse per me. E questo non è più amore, è egoismo. È sesso. Diciamolo.

Cambiare i paradigmi ha conseguenze, non facciamoci intortare da questa menzogna del non ti fa male. Sì, me ne fa perché cambia la realtà. Ogni novità la cambia e in profondità.
Nella sua banalità pensate alle innovazione tecnologiche: il telefono cellulare, i social media –che male ti fanno?- hanno modificato profondamente la cultura, la società, le relazioni oppure no? Eppure sono uno strumento, non una modifica di un comportamento.
Tutto ha impatto: è di questo che vogliamo ragionare non dell’emotività.

Che cosa comporta la sessualità tra due persone del medesimo sesso, perché di questo stiamo parlando non di altro, in che modo impatta sulla società, sul futuro, sulla verità? È questa la domanda da farsi e se non c’è risposta allora vuol dire che abbiamo sbagliato tutto, che questo non  un mito falso, ma un progresso sano.


Se invece, come spiegano da tempo in molti, qui ad esempio, con razionalità, con dovizia di dettagli e studi, con applicazione rigorosa, con impegno e serietà, se invece ne discendono conseguenze radicalmente gravi, male in sé, danni profondi, ferite insanabili come quelle lasciate da divorzio e aborto, allora possiamo dire che si fa male anche a me, ma non perché io sia fissato e presuntuoso, ma perché quel presunto amore, quella pretesa di relazione, va contro la giustizia e la verità.

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